Breve riflessione sul volontariato dall’interno di un’ambulanza di Udine nell’emergenza Coronavirus.
Il COVID19 sta colpendo duro. Ci sta facendo cambiare il modo di vivere e di pensare, ma ci sta anche facendo vedere il mondo con occhi diversi. E in questo periodo tutto è diverso: scuole, ospedali, città, trasporti, lavoro, famiglia, relazioni. Nulla è più come prima. L’Italia intera è colpita, ma si sta riscoprendo anche migliore: unita, collaborativa, coraggiosa e pronta a combattere con un esercito di professionisti-guerrieri e di volontari che stanno dimostrando al mondo l’“orgoglio italiano”.
Certo, balza subito all’occhio e fa sorridere amaramente il fatto che proprio i settori più bistrattati degli ultimi anni (ospedali, scuole e volontariato) siano quelli che, nell’emergenza, hanno saputo reagire prima e meglio di altri, riuscendo a dare risposte immediate a pazienti, alunni, famiglie e persone comuni.
Alcuni cittadini, in particolare, hanno deciso di scendere in trincea e di combattere vis a vis contro questo subdolo nemico.
Perché? Cosa spinge alcune persone a rischiare gratuitamente così tanto? Sono degli incoscienti senza percezione del rischio o degli eroi?
Ho cercato di capirlo mettendomi al loro fianco con guanti, camice e mascherina. La decisione di affiancare i volontari della S.O.G.IT. di Udine è stata per me obbligata: non ho potuto, infatti, scegliere tra i colleghi della Croce Rossa, della Protezione Civile o di altre Associazioni, perché è presso la S.O.G.IT che, un anno fa, ho frequentato il corso di formazione per volontari di ambulanza. Ad ogni modo, qualunque sia l’Organizzazione di appartenenza, lo spirito dei volontari non cambia.
Questo esercito di volontari è il più eterogeneo che esista: ci sono giovani o meno giovani, laureati, diplomati, persone di ogni orientamento politico e religioso, atei, benestanti e meno fortunati. Ci sono operai, commessi, impiegati, ingegneri, dirigenti, studenti, professori, avvocati, idraulici…Insomma, c’è una rappresentanza dell’Italia intera. Sono, però, tutti assieme; uniti ed uguali come se le differenze sociali, culturali e di ogni altro genere non esistessero. L’essere un volontario nell’emergenza, infatti, cancella ogni differenza e rende uguali davanti allo stesso obiettivo: quello di aiutare e sostenere gli altri.
Un discorso diverso, invece, sono le motivazioni che spingono molte persone a svolgere gratuitamente questa attività.
La maggior parte dei volontari mi hanno confermato di sentirsi particolarmente bene nel farlo senza che ci sia una particolare ragione e che, sicuramente, sapere di essere utile agli altri e alla società rinforza questa molla. La risposta più ricorrente è stata infatti: “non posso più farne a meno quasi come fosse una droga perchè so di aiutare gli altri.”
C’è poi chi dice “ho cominciato quasi per caso su segnalazione di un mio amico che mi ha informato del corso per volontari”; oppure chi ha deciso di farlo “per un senso di ammirazione ed interesse verso l’ambito sanitario d’emergenza e per sperimentare il lavoro di squadra in una delle sue massime espressioni; non ultime la voglia di mettermi in gioco, di imparare ed aiutare sia la comunità che le risorse coinvolte”. Ed ancora chi semplicemente vuole “poter aiutare e salvare la vita alle persone” magari per aver assistito ad un incidente o essersi trovato in situazioni in cui conoscere le prassi di primo soccorso sarebbe stato utile.
Anche in piena crisi Coronavirus, queste motivazioni hanno continuato ad essere valide e, infatti, non ci sono state defezioni, permettendo al sistema dell’emergenza di operare efficacemente.
Se, dunque, da un lato poco è cambiato nello spirito e nell’attitudine dei volontari, dall’altro ci sono stati due importanti cambiamenti: uno riguarda il numero e la tipologia degli interventi, l’altro la fatica e l’impegno psicologico nel combattere contro un nemico invisibile.
Da quando l’Italia è in piena pandemia, infatti, sono calate circa dell’80% le chiamate al 118 per incidenti o interventi di altro tipo. Però, anche se il numero delle uscite è minore, la fatica fisica e quella psicologica dei soccorritori è aumentata esponenzialmente.
L’intervento per un sospetto COVID19, infatti, è estremamente complesso. Si parte da un’attenta vestizione del personale che deve bardarsi con tuta completa, tre paia di guanti, mascherina filtrante e visiera protettiva. Alcune di queste parti vanno sigillate con nastro adesivo e controllate dai colleghi.
Si prosegue con l’attivazione e l’attento controllo di un’ambulanza che va adeguatamente preparata, l’uscita, l’arrivo sul target (obiettivo della missione), il primo controllo e la preparazione del paziente (a cui va misurata la febbre e fatto indossare guanti e mascherina), il suo trasporto al P.S. e l’attesa (a volte lunga) per l’accesso nella zona riservata. Consegnato il paziente, l’equipaggio si reca in un’apposita zona dove si procede alla sanificazione del mezzo e alla svestizione e disinfettazione del personale. Tutto ciò viene svolto bardati come sopra descritto e questo rende la respirazione e i movimenti estremamente difficoltosi sino ad una sensazione pericolosamente vicina allo sfinimento.
Per di più, ad aggravare la fatica di questi interventi, c’è l’incognita di non vedere quello su cui stai lavorando: non sai se c’è il virus o meno e, soprattutto, non sai dov’è. Ce l’hai sulla tuta? Sui guanti? Sulla visiera? Te lo porterai a casa? E se ti ammali?
Infine, con queste inquietanti domande che ti rimbalzano in testa, si rientra in sede, dove ci si informa sugli altri equipaggi, sulle condizioni dei pazienti trasportati e si cerca di riposare un po’, in attesa dell’uscita successiva.
Al di là dell’attuale emergenza però, non va dimenticato che i soccorritori-volontari operano sempre mettendo a rischio sé stessi per gli altri: lo fanno per libera scelta, con il cuore e per il bene di tutti. Ora più che mai.
Matteo Corrado
Volontario presso il servizio 118 operato dalla SOGIT Onlus di Udine