Hikikomori: la testimonianza di un ragazzo e la storia di un fenomeno in costante espansione tra i giovani, ma dai contorni ancora poco chiari e, soprattutto, sorprendenti quando si varca la loro porta, non sempre chiusa a chiave.
La scelta di isolarsi e rinchiudersi tra quattro mura – dove il tempo assume un valore diverso, dove giorno e notte si alternano in modo confuso e la luce naturale è sostituita da quella artificiale degli schermi o delle lampade – è difficile da capire. Una stanza che rappresenta un mondo intero in cui le relazioni fisiche e reali sono sostituite da quelle virtuali e lontane. Una stanza dalla quale la società deve rimanere lontana.
Ecco, in questa microscopica porzione di mondo si stanno chiudendo sempre più giovani tra i 14 e i 30 anni, principalmente di sesso maschile. Le femmine rappresentano una percentuale minore (si stima il 30%) ma in costante crescita.
Questi giovani sono conosciuti con il temine giapponese “Hikikomori” che significa letteralmente “stare in disparte” e viene utilizzato generalmente per riferirsi a chi decide di ritirarsi dalla vita sociale per lunghi periodi (da alcuni mesi fino a diversi anni). Al momento in Giappone ci sono oltre 500 mila casi accertati, mentre in Italia se ne stimano circa 100.000.
Questo fenomeno sta coinvolgendo tutti i paesi economicamente sviluppati del mondo, dove le pressioni sociali e le aspettative sono sempre più forti ed opprimenti (per tutti).
Gli studi sin qui svolti hanno permesso solo di descrivere, con buona approssimazione, la tipologia dei ragazzi coinvolti. Si tratta spesso di ragazzi intelligenti, ma particolarmente introversi e sensibili. Questo li ostacola nell’avere relazioni soddisfacenti e nell’affrontare con efficacia le inevitabili difficoltà e delusioni che la vita ci riserva.
Comunque stiano le cose, si tratta di una forma di disagio giovanile che sta cominciando a coinvolgere sempre più ragazzi e, come tale, mi interessa analizzarlo per conoscerlo meglio, capirlo e provare a dare qualche consiglio, senza giudicare.
Così, quando un’amica mi ha chiesto alcuni consigli per un ragazzo che vive questa situazione, ho colto l’occasione e sono andato a trovarlo. Lo chiamerò L.
Non so perché, ma mi immaginavo di incontrare un ragazzino esile, bianchiccio, un po’ goffo e dallo sguardo languido e confuso. Ecco che quando mi sono trovato davanti L ho avuto la prima di tante sorprese.
L è un ragazzo di 19 anni alto, molto bello, sano, in perfetta forma fisica, con capelli biondi e ben curati e gli occhi vispi e curiosi. Il suo aspetto fisico stonava completamente con le mie previsioni, come tutta la sua storia e il suo atteggiamento. Ad esempio, il giorno del nostro incontro, consapevole dell’importanza del ben noto “aggancio”, ho iniziato con il presentarmi con calma e con tutte le delicatezze del caso, convinto che il ragazzo non solo non mi avrebbe parlato, ma nemmeno guardato in faccia.
Ebbene, le cose non sono andate così.
Non è stato né facilissimo né immediato. Non posso negare che all’inizio L. era sfuggente, diffidente, sulle difensive e assai poco propenso al dialogo, ma le cose sono presto cambiate senza che io abbia dovuto utilizzare qualche tecnica particolare, se non l’atteggiamento di chi è lì per ascoltare.
Così, in meno di venti minuti, quello “agganciato” sono stato io.
L ha cominciato, un po’ alla volta e con prudenza, a parlare sempre di più fino ad inondarmi, con un’ottima oratoria, di informazioni, racconti, riflessioni e tanta, tanta voglia di parlare e di essere ascoltato. Ma non erano ragazzi isolati che rifiutavano ogni forma di contatto? Non erano ragazzi difficili, taciturni e solitari, senza voglia di vivere o fare? Evidentemente non è sempre così.
L mi ha raccontato come già durante i primi anni di liceo ha iniziato a provare una certa insofferenza per la scuola, per i suoi compagni, i gruppi e la società in generale. All’età di 14 anni ha iniziato a trascorrere qualche sabato pomeriggio a casa invece che uscire con gli amici. Diceva che non gli interessava uscire e si chiudeva in camera con i videogiochi.
In meno di un anno però, quei sabato pomeriggio sono diventati tutti i giorni della settimane e L, a 16 anni, si è ritirato da scuola (nonostante una media del 7/8). L mi ha spiegato che, dopo essersi ritirato da scuola, da quello che lui definisce il suo “suicidio sociale”, ha cominciato a stare meglio e a prendersi più cura di sé e del suo aspetto fisico che aveva trascurato sino a quel momento. “Preferisco stare con me stesso piuttosto che essere circondato da persone che non ti considerano e non si accorgono di te solo perché sei più tranquillo, più sensibile”.
L mi ha raccontato che a scuola i voti erano buoni e nessuno lo tormentava, ma che il problema non era quello. Non sopportava vedere gruppi di persone le une contro le altre parlare solo si sciocchezze e cattiverie in una società che, nell’insieme, fa lo stesso. “La società oggi ti chiede tanto, pretende molto ma non ti dà nulla. Non ti senti capito. Ti aspetti che qualcuno ti tenda la mano, ma non lo trovi. Non ho ricevuto aiuto da nessuno; è come se mi avessero spinto a diventare un hikikomori.
Secondo il mio giovane interlocutore internet e i social non sono la causa di questo isolamento ma, anzi, l’unica ancora di salvezza a cui aggrapparsi. “Mamma, all’inizio voleva sequestrarmi tutto: televisione, giochi, cellulare, internet. Poi, per fortuna, ha parlato con qualcuno e non l’ha fatto. Mi sarei ucciso”.
L mi ha spiegato che grazie a internet, ai social e alla tecnologia può scegliere lui. E’ come se fosse il mondo ad adeguarsi e non viceversa. Si sente meno costretto, più libero e più sereno. “E’ come riprendere a respirare dopo che ti manca il fiato da tanto tempo”. Grazie a questi strumenti L gioca, si informa e “parlo con un sacco di ragazzi e ragazze come me; così non mi sento solo né giudicato. Anzi, mi capiscono e ci confrontiamo su molte cose”.
La cosa che ha aiutato di più L è accaduta quando sua mamma, dopo una fase iniziale, ha capito che aveva bisogno di aiuto e di essere ascoltato e non punito o costretto. (Il papà vive in un’altra città e si sentono al telefono una volta a settimana, ma L. non sempre ha voglia di parlare con lui).
Anche confrontarsi con uno psicologo (esperto dell’argomento) lo ha fatto stare meglio aiutandolo a “sentirmi meno solo e pazzo”.
Potrei riempire molte pagine con i racconti di L, ma lo spazio per l’articolo non me lo permette e voglio dare dei suggerimenti per chi ne avesse bisogno:
1) Intervenire ai primi campanelli di allarme. Non trascurare alcun segnale di isolamento e non confondere una dipendenza da internet/videogiochi con questa sindrome.
2) Considerare questa sindrome proprio come una malattia e non pensare che si tratti di ragazzi svogliati o viziati da costringere magari con due ceffoni e il sequestro di tutti gli strumenti digitali.
3) Aiutare/ascoltare e non punire. Cercare di entrare nella loro “bolla” senza romperla.
4) Rivolgersi a psichiatri/psicologi esperti dell’argomento evitando le ricerche fai da te su internet (compreso questo articolo).
Vi lascio, infine, con le ultime parole che mi ha detto L (che oggi sta meglio, esce due/tre giorni al mese e “ho intenzione di provare ad uscire un po’ di più”):
“Grazie per avermi ascoltato senza avermi detto che sto sbagliando”.
Matteo Corrado
Esperto di dinamiche minorili, giudice onorario tribunale dei minori