Alla fine del 1700 Maria Teresa d’Austria commissionò la creazione di un automa, un giocatore di scacchi, dalle sembianze e dall’abbigliamento orientale – da qui il nome “Turco”, con cui sarebbe passato alla storia – in grado di muovere i pezzi su una scacchiera poggiata su una grande cassa piena di ruote, fili, meccanismi e ingranaggi, che una volta avviati permettevano all’automa di spostare alfieri, torri e pedoni, battendosi alla pari con i migliori scacchisti di tutto il mondo. Il Turco stupì la corte Asburgica, tanto che Wolfgang Kempelen, il suo inventore, fu spinto a portare la sua creazione in giro per l’Europa riscuotendo un enorme successo.
L’automa naturalmente non era un automa, ma un illusionismo, un gioco di prestigio, cosa peraltro mai negata dallo stesso inventore. Come tutti immaginavano, era manovrato da un uomo, ma nessuno riuscì a capirne e descriverne il funzionamento fino a quando Edgar Allan Poe decenni dopo scoprì i meccanismi che si celavano al suo interno. L’aneddoto del Turco meccanico di Kempelen appare oggi più che mai attuale. Il prorompente sviluppo dell’automazione, della robotica e dell’intelligenza artificiale sta cambiando non solo i paradigmi di produzione ma anche il modo di concepire il lavoro in modi ancora non del tutto chiari e definiti. Gli effetti del cambiamento tecnologico sulla quantità e nella qualità dell’occupazione sono oggetto d’analisi da moltissimo tempo e che le macchine possano sostituire il lavoro è stato, ciclicamente, uno dei principali oggetti di riflessione e di studio. Già nel 1983, il premio Nobel Wassily Leontief fece quello che allora sembrò un pronostico sorprendente, affermando che le macchine avrebbero sostituito la manodopera umana in modo alquanto simile a come il trattore ha sostituito il cavallo. Prima di lui, anche l’economista inglese Ricardo aveva ipotizzato uno scenario di una produzione industriale “completamente realizzata dalle macchine”.
Oggi sono molti gli studiosi e le istituzioni che si stanno interrogando dunque non solo sugli impatti dell’automatizzazione sul mercato del lavoro ma anche sull’individuazione delle competenze che saranno più richieste dalle imprese negli anni a venire. Secondo il World Economic Forum, entro il 2030 il 50% dei lavori sarà trasformato dall’automatizzazione ma solo il 5% scomparirà totalmente. Al tempo stesso, sempre secondo l’Organizzazione svizzera, il 65% dei bambini in età scolare farà un lavoro che ad oggi ancora non esiste. Se dunque non è semplice prevedere, come moderni rabdomanti, come sarà il mondo del lavoro nel 2030 o calcolare modelli di business che non sono ancora stati ideati risulta invece importante lavorare sulla creazione e sulla promozione di competenze e percorsi formativi in grado di rispondere ad un mondo che cambia rapidamente.
La crisi causata dal COVID-19 ha costretto più di 1 miliardo di studenti e giovani fuori dalle scuole, stimolando in questo modo la più importante transizione digitale nel mondo educativo della storia. Oggi le scuole e le università stanno, con non poca fatica, ridisegnando la didattica e l’apprendimento per permettere a tutti di frequentare le lezioni da remoto in vista di possibili ondate di ritorno del virus. Se da un lato questo rappresenta uno scoglio sia per gli insegnanti che per le famiglie (sono noti i problemi di connessione e mancanza di dispositivi in svariate parti del nostro Paese) questo apre un mondo di opportunità per re-immaginare forme di apprendimento nuove e al passo con i tempi. La crisi che stiamo vivendo unita ai cambiamenti della quarta rivoluzione industriale sta rendendo più labili i confini tra mondo fisico e digitale. In questo contesto ci si deve domandare se i nostri studenti siano pronti ad un mondo dove gli sviluppi tecnologici nel campo dell’intelligenza artificiale, della robotica, della biotecnologia, delle energie pulite e del quantum computing saranno sempre più rilevanti. Nel futuro prossimo 9 lavori su 10 richiederanno competenze digitali ma al tempo stesso, secondo una ricerca commissionata da JP Morgan, il gap digitale potrà portare a 1.67 milioni di posti vacanti nel settore ICT. Il World Economic Forum di recente, in maniera quasi provocatoria, ha chiesto se stiamo effettivamente incoraggiando i giovani a pensare a come la scienza, la tecnologia e l’innovazione possono aiutare a rispondere alle sfide economiche, geopolitiche, ambientali e a livello di società.
In molti settori e paesi le professioni più richieste non esistevano fino a 10 anni fa e questo trend sta subendo una decisa accelerazione. Secondo l’Unesco “per rispondere ai bisogni di base di un Paese l’insegnamento della scienza è un imperativo strategico”. Il forte livello di penetrazione degli smartphone unito allo sviluppo di strumenti didattici sempre più interattivi e coinvolgenti (pensiamo per esempio alle potenzialità delle stampanti 3d) ci spingono a ragionare sull’importanza dell’insegnamento delle STEM ma anche al modo stesso in cui questi contenuti vengono trasferiti. Nella quarta rivoluzione industriale, se vogliamo che i nostri studenti siano in grado di rispondere alle sfide globali, non possiamo più fare affidamento su modelli educativi desueti. Oggi disponiamo di tutti gli strumenti per poterlo fare. Non perdiamo questa occasione!