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Alla ricerca di nuovi modelli di crescita

Anche quest’anno il Philanthropy Day organizzato da Fondazione Lang è stato l’occasione per parlare delle nuove frontiere (e sfide) che il Terzo settore e l’universo della filantropia si trovano ad affrontare in questi tempi segnati da cambiamenti epocali. Nel corso della stimolante giornata si sono susseguite riflessioni e testimonianze sulla misurazione d’impatto, sulle caratteristiche della generazione Z, sulla finanza d’impatto e su tante iniziative virtuose quali quella della Fondazione Cottino a Torino. Tanti gli spunti da portare a casa e fare propri, anche sul come le fondazioni e le organizzazioni del terzo settore si stanno muovendo in ordinamenti legislativi diversi (penso alla Svizzera e al suo florido ecosistema filantropico, all’esempio statunitense di Miranda Kaiser – della famiglia Rockefeller – oppure alla testimonianza di Daniel Novack sulle vaste attività intraprese dal Nobel Muhammad Yunus sui temi dell’imprenditoria sociale nel Sud del mondo).

Uno dei temi che però più di ogni altro mi fa riflettere, e che sempre più anima il dibattito odierno, è quello relativo alla ricerca di un nuovo paradigma di crescita e sviluppo nell’economia: il capitalismo è messo al muro e sono tanti gli studiosi, sociologi e pensatori che si interrogano sui paradigmi di produzione (e distribuzione) della ricchezza generata. Infatti, molti operatori del mondo non profit – e spesso anche di quello profit – sono estremamente critici sul modo di fare economia (business) che si è visto fino ad oggi, e incriminano il capitalismo vecchia maniera per la vertiginosa crescita delle disuguaglianze sociali e le pressanti questioni ecologico-ambientali che il nostro pianeta sta vivendo. Guardando attentamente le analisi sui millennials e sulla generazione Z (senza contare le forti dichiarazioni di Greta Thunberg) la critica appare ancora più accesa, e se da un lato emerge come le nuove generazioni non siano più disposte a venire a compromessi sui temi della sostenibilità e della responsabilità sociale dall’altro si fa sempre più forte il bisogno di un cambio di prospettiva. Non a caso concetti come quello di Economia Civile, nato a fine 700 con Antonio Genovesi,  stanno tornando alla ribalta perché pensano all’attività produttiva quale ricerca del bene comune (frutto di una triangolazione tra Stato, mercato e corpi intermedi) più che al benessere individuale. Forse sono proprio la responsabilità civile e la cura del bene comune (i commons del premio nobel Ostrom) che mancano e che possono combattere l’indifferenza. Eppure, provenendo dalla c.d. old economy e avendo toccato con mano la valenza positiva della logica dell’impresa che tende all’utile per la soddisfazione di tutti gli stakeholder, che paga le tasse e remunera i fattori produttivi, mi soffermo e mi domando quanto siano vere le obiezioni su un sano capitalismo, avendone colto la sua grande forza generativa per la ricchezza di un territorio. La risposta è che forse qualcosa è cambiato nella nostra società rispetto ai tempi di Friedman, colui che riteneva che “la responsabilità sociale delle imprese fosse quella di aumentare i propri profitti” e che quando queste si dedicano alla responsabilità sociale andando contro l’obiettivo di creare ricchezza per azionisti rischiano di snaturarsi, indebolendo l’efficienza e danneggiando così dipendenti e consumatori.

Purtroppo esiste una parte di capitalismo aggressivo e spregiudicato che punta all’arricchimento anche a scapito di molti, che non paga le imposte e che attua schemi evoluti di evasione fiscale a danno delle casse dello Stato e dunque della collettività, che per non intaccare i margini di profitto attua politiche dannose all’ambiente, o che utilizza i fornitori come leva finanziaria, insomma un capitalismo clientelare che non fa certo bene all’economia. (Come pure esistono debolezze nel non profit con casi di organizzazioni poco trasparenti e dove spesso mancano ancora competenze gestionali e di programmazione necessarie per massimizzare  l’impatto e la portata delle azioni messe in campo).

Tutti abbiamo vissuto i danni di questa finanza speculativa: il crack Lehman ha aperto il vaso di Pandora causando una delle più grandi crisi di questo millennio. Gli effetti sono stati (e tutt’oggi ne portiamo ancora i segni) sotto gli occhi di tutti sia in termini di aumento dei tassi di disoccupazione (quella giovanile in primis) che di distruzione del risparmio e dell’accesso al credito per le imprese e i privati. La grande recessione ha fatto dunque emergere la sfrontatezza di scelte finanziarie azzardate e prive di un significato economico puro e semplice: la finanza è uno strumento, non un fine, serve per remunerare gli scambi fra operatori, alimentare circoli virtuosi di una economia che dovrebbe essere basata sulla salvaguardia di operazioni di scambio di beni e servizi beni seguendo le regole del mercato e preservando la possibilità di generare ricavi e poi utili in una sana competizione di mercato.

I due economisti Acemoglu e Robinson in un famoso paper del 2012 hanno evidenziato che esistono istituzioni economiche estrattive e inclusive. Le prime favoriscono la trasformazione del valore aggiunto creato dall’attività produttiva in rendita parassitaria o spingono l’allocazione delle risorse verso impieghi improduttivi. Le seconde tendono a facilitare l’inclusione nel processo produttivo di tutte le risorse, soprattutto di lavoro, assicurando il rispetto dei diritti umani e la riduzione delle disuguaglianze. Quella che stiamo vivendo è una stagione che si caratterizza per il rifiuto di un modello basato sullo sfruttamento in favore di un modello centrato sulla valorizzazione di tutte le tipologie di capitale, a cominciare da quello umano. Perché il “come” si genera profitto è altrettanto importante del “quanto” se ne produce.

Un certo cambio di mentalità lo si è avvertito quando i grandi CEO di Roundtable riunitisi il 19 agosto scorso, hanno decretato che la creazione di valore per gli azionisti non deve essere più l’unico fine delle aziende: le imprese devono investire nei loro dipendenti, proteggere l’ambiente, comportarsi eticamente con tutti gli stakeholder. Insomma proprio i capi della grandi corporates mondiali dichiarano che gli interessi degli azionisti non sono l’unico obiettivo che un’azienda privata deve perseguire.

Questa segue un’altra clamorosa dichiarazione, quella di Larry Fink che nella lettera annuale agli amministratori delegati avverte che “senza una motivazione alta che guarda anche all’ impatto sociale e ambientale, nessuna azienda può prosperare perché rischia di entrare in conflitto con i principali portatori di interesse”.

Come dice Mario Calderini (Tiresia, PoliMi), grande predicatore dei fini impact nell’economia, non ha importanza se queste dichiarazioni siano o no realmente metabolizzate dai rispettivi Jamie Dimon di JPMorgan o Larry Fink di Blackrock o se siano solo dichiarazioni di marketing: esse sono realmente grandiose e sconvolgenti per la loro portata. Stanno a significare che qualcosa sta veramente avvenendo. La flessione nella crescita del PIL nelle economie avanzate si traduce in una conseguente riduzione della spesa destinata al welfare e nel rischio di esacerbare e acuire le disuguaglianze e il disagio sociale. Alla luce di ciò serve davvero una nuova formula di economia trasformativa che prevenga i conflitti sociali e guardi ai problemi della comunità in tutte le sue debolezze (disuguaglianze, periferie e rigenerazione urbana, anziani, salute) sperimentando nuove sinergie tra pubblico, privato e non profit e utilizzando i nuovi strumenti legislativi che sono a disposizione (ad esempio le società benefit, le B-corp e l’impresa sociale). E allora sono curiosa di vedere sul territorio se e come la forza buona di questa innovazione sociale e della finanza di impatto potranno promuovere una rinnovata economia, capace di andare verso un maggiore rispetto della dimensione ambientale e sociale e un ragionato ascolto ai bisogni della società in cui viviamo.

www.fondazionepittini.it

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